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lunedì 11 marzo 2019
“Lei è l’ultima che può parlare, ha scritto cazz… come sempre” Finalmente qualcuno che demolisce la compagna De Gregorio e il suo pezzo da piangina
La giornalista Concita De Gregorio ha scritto un articolo su Repubblica titolato «Quando questa firma sarà di un uomo» in cui dice che ha accettato di scrivere a patto che Repubblica non le chieda più di affrontare l’ argomento, che è la Festa della donna: e su questo sono d’ accordissimo con lei, vorrei che non ne scrivesse più.
Poi ha scritto che l’articolo le è stato assegnato da uomini e che a dirigere Repubblica sono uomini e a vicedirigerlo pure, quindi tanto vale che l’ articolo sull’ 8 marzo lo scriva un uomo, l’anno prossimo: e di questo, invece, non m’importa nulla, perché penso che l’articolo sull’ 8 marzo non dovrebbe proprio scriverlo nessuno, giudicando questa festa stucchevole a dannosa per la cosiddetta categoria.
Poi ha scritto altre cose, ma prima di affrontarle è il caso che lo scrivente (la scrivente) faccia outing, o coming out, o come si dice: perché, appunto, a scrivere l’articolo che state leggendo, in realtà, è una donna – mi chiamo Filippa Faccia, è tempo di rivelarlo – e da lustri mi nascondevo dietro un corrispettivo maschile per fare una carriera migliore.
Dati i risultati, mi viene naturale chiedermi come sarebbe andata se mi fossi palesata come donna da subito, ma, soprattutto, mi è difficile accettare che io abbia fatto una carriera da uomo mentre la De Gregorio abbia fatto una carriera da donna, e però lei guadagni probabilmente più di me e, secondo i canoni, abbia fatto una carriera migliore della mia, visto che io non ho mai diretto un quotidiano e lei sì. Anche se – mi spiace, ma è la verità – la cosa che è rimasta più memorabile della sua direzione dell’ Unità è una pubblicità del 2008 in cui si vedeva il culo di una donna in minigonna con in tasca il giornale, campagna che fece clamore tanto che lo spagnolo El Mundo titolò «Un polemico culo per vendere più giornali», una cosa che non piacque a tutte le femministe.
Per consolarmi della mia carriera più modesta, comunque, mi racconto che forse esiste un modo di fare carriera da donna in quanto donna – e non semplice e capace professionista – e cioè una carriera che dia una forte connotazione al fatto di essere donna che spesso scrive di donne e di se stessa in quanto donna, ma forse è solo uno scioglilingua, e allora lascio perdere.
La De Gregorio ha scritto anche altre cose, dicevamo. Ha scritto che le donne hanno meno compiti di responsabilità loro affidati, che una minoranza guida imprese o università o teatri o ministeri, che sono pagate meno, che nelle famiglie, spesso, dovendo scegliere, lavorano solo gli uomini. Sono tutte cose vere. Poi ha scritto che le donne dovrebbero essere valutate per le loro capacità ed essere pagate di conseguenza: vero anche questo, direi ovvio.
Dopodiché ha preso se stessa come esempio di discriminazione e ha raccontato che da direttrice guadagnava «moltissimo meno dei miei predecessori» (forse non fu lei a fare la trattativa) e che in Rai, quando prese il posto di un collega cui poi dovette ricederlo, ebbe un ingaggio di un quarto rispetto al collega.
Anche, qui, dobbiamo pensare, non fu lei a fare la trattativa: forse fu un uomo a farla al posto suo. In ogni caso è stata poco carina, perché poteva anche scriverlo che il collega è Corrado Augias, peraltro suo collega nel girone uomesco di Repubblica: Augias è pur sempre un giornalista rispettabile, anche se è notoriamente un vecchio trombone. La De Gregorio ammette che poteva anche non starci, rifiutare in nome della causa: tra l’altro sarebbe stato bello se avesse pubblicato anche i compensi, pur inferiori. Però poi si è fatta molto umana: «Si può sempre dire no e stare fuori.
Ma fuori spesso piove, fa freddo, e a un certo punto bisogna rientrare». È notorio che oltretutto le donne soffrono maggiormente il freddo. Infine, la De Gregorio ha scritto quelle che io giudico delle cazzate, concause della scarsa simpatia che la questione femminile riscuote nel Paese spesso anche tra le donne. Una è che «c’ è sempre qualcuno che farà lo stesso lavoro al posto tuo, se rinunci»: è vero, ma questo vale per tutte le categorie, a tutte le latitudini e a qualsiasi livello di emancipazione. In Italia, per esempio, troverai sempre un immigrato che farà lo stesso lavoro al posto tuo, se rinunci: e al datore di lavoro gli frega poco se sia uomo o donna, gli frega che può pagare meno. Ma è un altro discorso.
La De Gregorio, poi, esorta le donne come categoria: «Non abbiate paura del confronto, se è sul merito. Bisogna pretenderlo, non succederà da solo: bisogna incazzarsi, ora… Le destre avanzano, è ora di alzare la voce».
Ecco: si torna a paventare un genere di «lotta» che in passato ha denotato solo un formidabile potere divisivo, non ottenendo – mai – un accidente che non fosse il ritardare la fisiologica emancipazione della donna: che, in ogni caso, c’è e resterà inarrestabile, e avrà tempi che non saranno dei residuali femminismi ad accelerare, ma solo la pratica quotidiana e i comportamenti.
Nei paesi più civili non sono le «lotte» ad aver emancipato la condizione femminile, ma una più datata maturità democratica e storica, l’assenza di condizionamenti religiosi e la semplice convenienza economica nel premiare il merito prescindendo dal sesso: sempre che non spuntasse qualche femminismo sindacalizzato – ciò che la De Gregorio auspica – a pretendere irraggiungibili tutele di categoria.
Negli Stati Uniti, paese in cui l’emancipazione femminile è al massimo grado, le donne in quanto donne di tutele ne hanno pochissime. In Italia delle battaglie e degli articoli non gliene frega a nessuno: non è questo ad aver fatto raggiungere parità di presenze nel lavoro o ad aver fatto superare gli uomini in professioni come magistratura, avvocatura e medicina. «Incazzarsi» e «alzare la voce» è servito solo a chi, della causa femminile, ha fatto professione pur rientrando puntualmente nei ranghi, perché «fuori spesso piove, fa freddo e a un certo punto bisogna rientrare», certo. A scrivere articoli puntualmente al coperto.
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